domenica 7 febbraio 2016

Il Bologna Squadrone, 1936


[...] Le messi buttavan bene, la canapa, le vigne i frutteti anche: dunque il « Bologna » doveva vincere. Forza Gasperi che hai lasciato la lavanderia per commerciare la nostra frutta. Forza Perin che cuoci il nostro pane. Forza Della Valle che ci disegni le strade e i canali della bonifica. Anche le risaiole cantano la canzone del « Bologna ». E il « Bologna » vinse. Mussolini mieteva il grano di Càrpena e aveva un gran cappello di paglia. Lo Sterlino, il vecchio campo del vecchio « Bologna »: un campo erboso e in pendio ritagliato dal parco d'una villa patrizia. Fuori, sorgevano celebri trattorie popolari, punto d'obbligato passaggio per i fattori che venivano in biroccino dalla via Toscana. Plebe e aristocrazia petroniane s'incontrarono laggiù per amor del calcio; in tribuna c'era addirittura un letterato carducciano, con una coperta sui ginocchi nei pomeriggi nevosi. Erano gli anni che il professor Giuseppe Lipparini non mancava a una partita e scriveva una novella intitolata « Offside ». Se ne parlò molto al Pavaglione, davanti a Zanichelli. Studenti e operai, affratellati da un'ardente passione, veri calciatori all'antica, quelli dello Sterlino. Avevano cosce enormi, scarponi di cuoio giallo o verdino legati con stringhe bianche e attorno alla fronte un fazzoletto di bucato. Portavano in giro un glorioso paio di gambe storte, maturate dalle contusioni e gonfie di parastinchi. Entravano alla spicciolata nel campo, come in un orto, da un cancelletto di ferro. Non c'erano ancora i sottopassaggi, questi « golfi mistici » dello spettacolo sportivo, dai quali sbucano a un cenno le squadre lisce e agghindate. Le maglie di seta si contavano sulle dita di una mano; gli « avanti », sfidando l'ernia, sparavano in porta da trenta metri; una rete rotta da una pallonata fu conservata come una bandiera del '48; i tiri spioventi dei terzini eran considerati un segno di salute e un motivo di allegria. Gli arbitri poi, estrosamente vestiti, somigliavano ai velocipedisti dell'Ottocento. Dopo la partita, il « capitano », con la valigetta di fibra rossa in mano, saliva sul tram e rientrava in città al canto dell'inno sociale. Il tranviere perdeva la testa e lasciava a terra le vecchie signore. Imperavano i calciatori della Mitteleuropa. « Chi boja ed chi tudésch » (per noi, tutti i tecnici biondi provengono dalla Foresta Nera). I « tedeschi » dunque che un tempo avevan lasciato Bologna di notte, alla chetichella, con gli zoccoli dei cavalli fasciati di stracci, ci tornavano ora in casa, per la via dello Sterlino. Questa volta le scarpe fecero rumore e tirarono calci scientificamente perfetti. Ci voleva un rimedio. Giornata d'allenamento. La giacca su una spalla, il cappello in cima e il toscano in bocca, i fattori se ne vengono dalla trattoria del Ragno a vedere, anche loro, il trainer tedesco. Ohi, ragazzoli che novità è mai questa ? Invece di tirare i calci di rigore che sviluppano i muscoli e stuzzicano l'appetito, i giocatori saltano la corda, si buttano il pallone con le mani, hanno scarpette da podisti. Quest'aria da vecchio ricreatorio, questi giocherelli da signorine non persuadono. La tecnica, la tecnica ! I fattori tornarono alle briscole, scuotendo la testa. L'avvento della tecnica infatti doveva affinare lo stile e insidiare l'animo del giocatore. Si sentì parlare di compravendite e defezioni. E a Bologna ci fu il tradimento. Il centrattacco Alberti passò al « Genoa » che accettò di sottoporlo all'operazione al menisco: magico e nuovo nome nelle cronache calcistiche. Alberti tornò l'anno dopo allo Sterlino e decise la sconfitta del « Bologna ». Era troppo. Un noto « tifoso », che nei giorni feriali smerciava liquori con amabile viso, menò schiaffi con la morte nel cuore; i ragazzi piangevano come vitelli, in tribuna si gridava « Menisco, Menisco » per invitare alla calma. Di lì a poco Alberti morì. All'ingresso del campo il « tifoso » liquorista, le lacrime agli occhi e il cappello in mano, umile e pentito come una Maddalena, raccoglieva denaro per onorare il suo idolo, da lui vilipeso. Squilla la cornetta e sventola il bandierone: il « Bologna » è campione d'Italia. « Schiavio », « Schiavio », ma Schiavio, il « capitano » se ne va: ha trentun anni, gioca da quindici, i muscoli sono stanchi, l'azienda paterna lo reclama: « Angiolino », una volta campione del mondo, due volte campione d'Europa, e tre d'Italia, si ritira nel suo negozio a vender cravatte, maglie, camicie e mutande. Schiavio non è, almeno per Bologna, il solito atleta glorioso che scompare. E' un buon figliolo serio e laborioso che ha imparato a giocare fuori porta per farsi onore nel suo squadrone: e v'è riuscito. Da quindici anni Angiolino, dimenticando d'essere un signore, non fuma, non beve, non ha una domenica libera. Son quindici Pasque e quindici Natali che rinuncia ai tortellini per scender leggero sul campo. Tutto per il « Bologna », solo per il « Bologna ». Schiavio significa – anche i non sportivi lo sanno – onestà e lealtà, spirito di sacrificio, cuor generoso, fedeltà assoluta. La maglia di un tempo è rossoblù come oggi: il professionismo non l'ha macchiata. Angiolino lascia lo stadio. Per lui molti romagnoli dal cappellone canicolare rinunceranno alle gite domenicali; per lui molti soldati cesseranno di soffrire, molti ragazzi di strillare, molti maturi signori d'impallidire dall'emozione. E' un bolognese che se ne va, un po' del vecchio « Bologna » provinciale, del povero e combattivo squadrone che « tremare il mondo fa ». Senza di lui la vecchia canzone perde del suo fascino popolaresco, smorza il suo tono guascone, rivela il suo atto di nascita: giallo e ingiallito dal tempo. Dall'ufficio di Schiavio si vede nella piazzetta di Re Enzo lo stendardo rossoblù issato sul pennone nei giorni di festa. Sarà un richiamo? La cornetta sembra impazzita dalla gioia; l'odono le vedove alla Certosa e sorridono anch'esse sfiorando i garofani dal gambo troncato.

Nessun commento:

Posta un commento