mercoledì 26 agosto 2009

Roberto Mancini



Roberto Mancini, per tutti i tifosi semplicemente "Il Mancio", è ancora una ferita aperta sulla pelle dei tifosi del Bologna, una ferita che non si rimargina, nonostante siano passati tanti anni. La vergognosa cessione di Mancini fu un trauma che seguì un altro scioccante avvenimento in casa rossoblù: la prima storica retrocessione in serie B del Bologna. La caduta negli inferi del calcio dopo più di settanta anni senza mai retrocedere nelle categorie inferiori. Il glorioso Bologna F.C. era infatti una delle tre squadre (assieme alla Juventus F.C. e all'Internazionale) che potevano vantare di essere sempre state presenti nella massima divisione nazionale, fin dagli albori del calcio italiano. Quel campionato fu veramente una tragedia sportiva per il Bologna. Da quel pomeriggio infausto ad Ascoli cominciò un lento declino del club bolognese, un declino di ambizioni ad alto livello da cui il Bologna non si è mai completamente ripreso. Il "Mancio" apparve come una stella cometa nel cielo rosso-blu di quei primi anni Ottanta, i tifosi ammiravano estasiati le giocate di quel fuoriclasse bambino che accarezzava il pallone come solo i grandi del football sapevano fare. I vecchi tifosi dello "Sterlino" e poi del "Littoriale", sognavano nuovi orizzonti, vedevano realizzarsi il sogno di un nuovo grande campione uscito direttamente dal vivaio, un nuovo idolo con il quale identificarsi. Ma purtroppo per loro e per il Bologna, in quei primi anni '80 il presidente del B.F.C. portava il nome e cognome di Tommaso Fabbretti. Era un assicuratore di origini calabresi (ma bolognese praticamente da sempre), già presente nello sport cittadino in veste di sponsor della Fortitudo Pallacanestro con il marchio "Mercury". Piombato nel mondo pallonaro nel 1979, dopo avere rilevato il Bologna da Luciano Conti, il suo primo anno di presidenza - campionato 1979-80 - fu tutto sommato buono, nonostante la bufera calcioscommesse. Ottavo posto e tranquillo centroclassifica. L'anno seguente - 1980-1981 - fu invece ottimo: il Bologna di Gigi Radice diede spettacolo, nonostante la penalizzazione di cinque punti, che negò al Bologna un quinto posto strameritato. Poi l'inferno. 

Prima retrocessione in serie B nella storia del club; cessione di Roberto Mancini alla Sampdoria; e un'altra retrocessione - la seconda consecutiva -, questa volta in serie C1. Un disastro epocale. Nel giro di un anno venne letteralmente distrutta e umiliata una delle squadre più gloriose di tutto il football italiano. Per Fabbretti, ormai completamente fuori controllo, fu facile cedere alle lusinghe e ai soldi di Paolo Mantovani, petroliere e presidente della neopromossa ed emergente Sampdoria: con una misteriosa e poco chiara trattativa condotta in Svizzera, direttamente con Mantovani e il d.s. Borea (appena uscito dal Bologna retrocesso e ingaggiato dalla Sampdoria...), Fabbretti cedette Mancini alla Samp per 4 miliardi, con a corollario alcuni giocatori non di primo piano o a fine carriera: Galdiolo, Logozzo, Roselli e Brondi. Gigi Radice, già contattato da Fabbretti per tentare di indorare ai bolognesi l'amarissima pillola della retrocessione in B, annunciò in un'infuocata conferenza stampa, che mai avrebbe guidato il Bologna in serie B privo di Roberto Mancini. Il giorno dopo, Fabbretti non poté che confermare l'assurda cessione del giovane fuoriclasse rossoblù, non senza avere prima replicato duramente a Gigi Radice con queste parole: "Radice aveva trattato la cessione di Mancini alla Juventus, l'affare voleva farlo lui. Sono gli allenatori di questo genere che rovinano le società". In città la notizia si diffuse rapidamente: si scatenò una furibonda contestazione, con tanto di enorme corteo per le vie cittadine, e violenta sassaiola sotto alle assicurazioni di Fabbretti (furono mandate in frantumi diverse vetrate). Fu anche appiccato il fuoco alla sua casa - diversi infissi di casa Fabbretti bruciarono -, il tutto in uno scenario irreale e incredibile. Intanto però il "Mancio" era perso per sempre. Il sogno dei tifosi rossoblù di potere ritornare grandi con un campione costruito in casa naufragò in quei giorni. Roberto Mancini fece in seguito le fortune di Sampdoria e Lazio, regalando giocate sublimi, da autentico fenomeno del pallone. L'ingiustizia storica era così compiuta; un'ingiustizia e una ferita che brucia ancora sulla pelle dei tifosi del Bologna come una frustata. 

BOLOGNA, 9 MAGGIO 1982: BOLOGNA - INTER 3-1.

Tratto da "...Ho visto un gran Bologna...".
Le più belle vittorie in 30 anni di storia rossoblù dall'ultimo scudetto ad oggi.

Prima o poi, durante questo racconto che ripercorre trent'anni di vittorie rosso blu, al fatidico campionato della nefasta retrocessione in B dovevamo arrivarci. E scegliere un momento positivo nella stagione 1981/82 è davvero difficile. Sotto la guida di Burgnich, subentrato a Radice andato a farsi esonerare a Milano, la squadra gioca malissimo e ciò che di buono è stato fatto l'anno precedente è presto dimenticato. Esplode Roberto Mancini, diciassettenne dalla classe cristallina, ma non basta. Il nuovo straniero, Herbert Neumann, è una larva e il suo unico merito pare essere quello di avere portato a Bologna la bellissima moglie Maria; un infortunio in fase di preparazione lo ha certamente condizionato, ma non abbastanza da giustificarne lo scarsissimo rendimento. La difesa fa acqua e gli attaccanti Fiorini, Chiodi e Chiorri non segnano neanche a porta vuota. Dopo l'umiliazione del 4-1 di Cesena, a otto turni dalla fine subentra in panchina l'indimenticato Franco Liguori, al quale però manca l'esperienza necessaria per tirare fuori dalle sabbie mobili una squadra in disarmo. Il primo approccio illude tutti: 2-0 sulla Roma, reti di Fiorini e Mancini, con Neumann che gioca finalmente da par suo. Nessuno osa pensare seriamente che il Bologna possa finire in serie B, sarebbe come se cadesse la Torre Asinelli, o se sparisse il santuario di San Luca, ovvero i simboli perpetui della città, caratteristici come appunto la permanenza della squadra nella massima serie da quando esiste il calcio italiano. Invece arrivano una dopo l'altra durissime batoste contro Napoli, Fiorentina, Udinese e Genoa. Il 9 maggio, alla penultima, i rosso blu hanno ancora una minuscola speranza; di fronte c'è un'Inter demotivata, ma sempre al quarto posto e con sei futuri campioni del mondo in campo. Giocano la carta della disperazione. 

Boschin, Cilona, Fabbri; Paris, Mozzini, Carrera; Fiorini, Baldini, Mancini, Colomba, Pileggi. I nerazzurri oppongono Bordon, Beppe Baresi, Oriali; Marini, Bergomi, Bini; Centi, Prohaska, Altobelli, Beccalossi, Serena. Dirige Menicucci. In tribuna Azeglio Vicini è venuto a verificare i progressi sbalorditivi di Mancini per la sua Under 21. Parte a testa bassa, il Bologna, ma all'ottavo Centi fa piombare nel silenzio il vecchio stadio segnando in diagonale in mezzo ad una difesa di belle statuine. Uno spettro aleggia ormai liberamente sul Comunale: la serie B. E invece i rossoblù trovano la forza di reagire: all' undicesimo Bordon salva su Mancini, un minuto dopo Mozzini coglie la traversa di testa. Dopo un "mani" di Baresi in area, giudicato involontario, e un gol annullato a Prohaska per fuorigioco di Serena, il sospiratissimo pareggio arriva al 19': tira da fuori Fabbri, la difesa respinge, riprende Fiorini che piazza un botta secca nell' angolo lontano. Un gran gol. "Fiore" è scatenato e si ripete al 25' superando in corsa Bergomi, futuro francobollatore di Rummenigge nella finale Mundial, e concludendo imparabilmente di destro alle spalle di Bordon. Vantaggio! Lo spettro si dissolve per un attimo. Solo per un attimo, perchè anche Cagliari e Genoa, che precedono il Bologna di un punto, stanno vincendo. L'Inter assiste ormai svogliatamente alla partita e subisce il terzo gol al 31' della ripresa per opera di Mancini, dopo lunga fuga. 

È il suo nono centro; doveva cominciare il campionato con la speranza di giocare qualche incontro, e alla fine li ha giocati tutti. Sulla catastrofe di Ascoli, la settimana successiva al 3-1 rifìlato all'Inter, preferisco non dilungarmi. Si affrontò sapendo in anticipo che neppure un miracolo avrebbe salvato lo squadrone che tremare il mondo... faceva. Cagliari e Genoa, ovviamente, ottennero da Napoli e Fiorentina il punticino di cui avevano bisogno. Il Bologna, che doveva assolutamente vincere per potere quantomeno tenere accesa una fiammella di speranza, passò in vantaggio con Mozzini ma i bianconeri dell'ex De Ponti non ebbero pietà e con Torrisi e Greco fissarono il punteggio su un 2-1 che non dimenticheremo mai. Le lacrime, gli sfoghi composti ma disperati dei tifosi; le pagine struggenti che i giornali bolognesi dedicarono a quell'infausta giornata; il desiderio, nonostante tutto, di voltare pagina, di riscattarsi. Sono i miei ricordi più vivi di quei momenti neri. E Fabbretti, nell'occhio del ciclone delle contestazioni (giustificate), anzichè andarsene solleticò la piazza con nuovi e gloriosi programmi, a partire dal ritorno bomba di Gigi Radice, un nome, come si dice, una garanzia. Ma intanto, in Svizzera, vendeva di soppiatto Mancini al presidente sampdoriano Mantovani. Appena la notizia si diffuse, Radice salutò la compagnia sbattendo la porta. Il presidente rilanciò gravi accuse al tecnico brianzolo; ne seguì una bufera che lasciò attonito il popolo rossoblù. Il fondo del baratro, purtroppo, era ancora ben lontano.

Il bambino tutto d'oro

Il Bologna per la prima volta nei suoi 73 anni di storia precipita in Serie B lasciando a Inter e Juventus il primato di squadre sempre nella massima categoria, e lo fa lanciando un fulgido messaggio al futuro, con lo sboccio precoce di un formidabile talento. Si chiama Roberto Mancini e ha appena 16 anni al momento dell'esordio in A, il 13 settembre. Quando compie i diciassette, il 27 novembre, ha già conquistato la maglia da titolare e segnato i primi due gol. Deve l'esordio al fiuto dell'allenatore Burgnich, che ha dissuaso il presidente Tommaso Fabbretti dal mandare il gioiellino del vivaio in prestito al Forlì. I guai fisici di Fiorini, titolare sulla carta, e i problemi di Chiodi gli aprono le porte della prima squadra. È un talento naturale, marchigiano di Jesi, entrato nelle giovanili rossoblù dopo un provino a dieci anni e cresciuto impetuosamente grazie a doti tecniche e atletiche di prim'ordine. Attaccante per predisposizione, è stato svezzato come interno per esigenze di settore giovanile e ne è venuto fuori un campioncino completo, che Burgnich può addirittura far giostrare in pratica da centravanti, vista la rapidità di esecuzione, l'abilità nel palleggio e il tiro in porta con entrambi i piedi. Il "baby" conquista tutti e alla fine restano aggrappate alle sue prodezze le speranze del Bologna di non cadere in B. 

Speranze deluse, ma Robertino, che a fine torneo vanta 9 gol in 30 partite (di cui solo 25 dall'inizio), non conoscerà la cadetteria. In estate la Sampdoria del petroliere Mantovani si fida delle segnalazioni di Paolo Borea (direttore sportivo del Bologna che passa appunto in casa blucerchiata) e di Claudio Nassi e al termine di una durissima trattativa vince la concorrenza di Juventus e Udinese, facendo suo il ragazzino per l'incredibile cifra di due miliardi e mezzo in contanti più tre giocatori, Galdiolo, Logozzo e Roselli, e il prestito del giovane Brondi. Nella Sampdoria Mancini vivrà da grande protagonista, dopo una fase accidentata per via di qualche problema muscolare, l'avventura degli anni d'oro: vincendo uno scudetto, una Coppa delle Coppe, 4 Coppe Italia e una Supercoppa italiana. Terminerà la carriera vincendo lo scudetto nelle file della Lazio, con l'appendice di 5 partite nel Leicester, massima serie inglese, stagione 2000-01, prima di chiudere e passare alla carriera di allenatore al massimo livello. Vantando 541 presenze e 156 reti in Serie A. Unico cruccio, il poco felice rapporto con la Nazionale. Il bilancio in azzurro conterà 36 partite e 4 gol. Poco per uno dei migliori talenti del calcio italiano.

Intervista a Franco Colomba. 

Da "La Gazzetta dello Sport".

È il 1981. Kakà e Cassano nasceranno fra un anno. La Nasa lancia per la prima volta la sua nuova navicella, in grado di tornare a terra come un aereo di linea: lo Shuttle. In Francia lanciano il treno superveloce, il Tgv. La Ibm annuncia il lancio dei personal computer. In Italia, il Bologna lancia Roberto Mancini. Formidabile, quell'anno. Il Principe del Galles, Carlo, sposa Diana Spencer: la cerimonia è seguita in diretta da miliardi di telespettatori. Paolo Rossi detto Pablito sposa Simonetta. La Juventus vince l'ennesimo scudetto. Il 13 settembre Roberto Mancini, neanche diciassette anni, debutta in serie A. Nel Bologna contro il Cagliari, a diciassette minuti dalla fine. Rileva Giuliano Fiorini. Arbitro Pieri, il papà dell'arbitro Pieri. Il 13 settembre, prima giornata del campionato di serie A, il Bologna allenato da Tarcisio Burgnich, storica figura dell'Inter, il terzino che faceva coppia con Facchetti, decide di inserire in prima squadra il giovane talento di Jesi. Il capitano è Franco Colomba, un centrocampista. Comincia così l'anno del Mancio: entra e non esce più. Nella prima giornata la Juve batte il Cesena 6-1. Esplode subito Roberto Bettega: tre gol. Esplode lo scandalo P2, la loggia massonica che aveva instaurato una sorta di «governo ombra»: molti personaggi di spicco della vita sociale italiana risultano implicati. Esplode sui teleschermi l'interesse per la serie Dallas, la più seguita degli anni ottanta. Esplode la passione per una trasmissione di una nuova emittente, MTV, è piena di musica, lancia i videoclip, la vita di milioni di ragazzi non sarà più la stessa. L'anno 1981, l'alba di Roberto Mancini, è il trionfo del talento John McEnroe. E il suo anno di grazia, supera Borg a Wimbledon, e negli US Open, conquista la terza Coppa Davis e fa diventare un fenomeno anche lo sconosciuto Peter Fleming, compagno di doppio. Irriverente, insolente, semplicemente strepitoso. I tifosi lo adorano e John McEnroe dipinge tennis come mai nessuno prima, geniale come la tradizione vuole lo siano i mancini. Roberto Mancini è anche mancino. 

Nel Bologna di Franco Colomba diventa subito il punto di «riferimento offensivo». Gioca trenta partite, tutte, segna nove gol. Gli opinionisti si interrogaano: «Rifinitore sulla fascia, centravanti di manovra o cosa?». Profetizzano: «Questo ragazzo farà cose bellissime, meravigliose, uniche». Scrivono: «Ognuno vuol toccare con la spada benedetta la chioma di questo pestifero marchigiano, di questo guizzante cerbiatto». Il suo capitano, Franco Colomba, lo segnala a Enzo Bearzot per la Nazionale. Alla quarta giornata, dopo il suo primo gol in serie A, a Como. Suggerisce Colomba: «Robertino è una punta molto speciale, non sbaglia un colpo. E già un campione e passerà alla storia. Perché non dovrebbe trovare un posto fra i ventidue che andranno ai mondiali di Spagna?». «Ah, così ho detto?», ridacchia adesso Colomba. Poi: «Diciamo che era tutto molto naturale. Sì è visto subito. Anzi, l'abbiamo visto prima, a un torneo di Capodanno, un Mundialito a Bologna. Molto bravo, molto deciso, con tante qualità. Li vedi subito, nascono così. Roberto è nato grande». Centravanti o rifinitore? «Talento. E basta. Campione, giocatore di statura. Insomma: un fuoriclasse. lo avevo ventisei anni, ero un giovane capitano, lui diciassette. Era maturo solo in campo e in campo vederlo muoversi, lanciarsi, smarcarsi e chiedere il passaggio era una gioia. E io lo lanciavo. Lui arpionava, certo, con eleganza e freddezza, il pallone e andava dritto in porta. E poi era generoso, bravissimo negli assist». Protestava con gli arbitri, il piccolo Mancini? «Eh, cosa vuole ... subiva falli, scorrettezze. 

Il destino dei Rivera e di tutti i grandi. Protestava, ma non è mai stato un gradasso. Sapeva fare tutto bene e aveva chiare idee in testa. Per il suo presente e il suo futuro. Ricordo che il responsabile del settore giovanile del Bologna, Walter Bicocchi, mi diceva: "Dagli un'occhiata, è un cinno, è un bambino vivace". Diciamo che lo seguivo con particolare attenzione, perché avevo qualche anno più di lui e perché era bello giocare con i giovani». Franco Colomba se lo immaginava Roberto Mancini allenatore? «Sì, gli piaceva il calcio e il gioco, gli schemi, le posizioni sul campo. E stato un vero grande. Io ho giocato con Dossena, Pecci, Ramon Diaz, Dirceu, giocatori di spessore, di enorme qualità. Roberto era di quella pasta. Forse non è stato fortunato, forse non ha avuto molta fortuna in Nazionale, avrebbero dovuto dargli un po' di spazio in più, lo meritava, aveva i numeri per sfondare ovunque. Ma quello era il tempo, era chiuso, c'era Roberto Baggio. Ma la sua classe, i suoi colpi di genio resteranno nella storia del nostro calcio. Anno 1981: i tifosi della Ferrari vanno in delirio per le imprese di Gilles Villeneuve. A Monaco regala alla scuderia di Maranello la prima vittoria dell'era del turbo. Poi conquista una straordinaria vittoria al Gran Premio di Spagna dove "tiene dietro per tutta la gara cinque macchine più veloci della sua". Dopodomani l'Inter dell'allenatore Roberto Mancini affronterà il Livorno di Franco Colomba. Il bambino contro il capitano. A Bologna di Mancini scrivevano: «Il ragazzo dal gol turbinoso, in attesa dell'attimo fuggente». E di Colomba: «Il saggio metronomo che il Bologna faceva volare". Parole del tempo. Adesso c'è Livorno - Inter e Franco Colomba dice: «Sono contento di rivederlo in panchina. Lui è sempre un avvenimento».

Tratto dal mensile inglese "Four Four Two".

Roberto Mancini.

Great players do not always become great coaches, but Internazionale's Roberto Mancini has usually been the exception to the rule. As a player that much was obvious when he scored on his Serie A debut for Bologna aged 16 years and 11 months (he finished his first season as fourth-top scorer in the league). Aldo Mancini: Roberto's father Aldo nearly missed his son's Serie A debut in September 1981. He had gone to Rimini to watch him play for Bologna's youth team, where Roberto had scored 45 goals in 28 games the previous season only to be told the 16-year-old was in the senior side. He arrived at the Dall'Ara in Bologna in time to see Roberto become the third youngest footballer to play in Serie A, and then score. It was typical Roberto - he had not even let his parents wave him off at the train station when he first secured a trial at Bologna, aged 12.

A Casteldebole una sfida dai mille ricordi.

Di Silvano Stella.

Roberto Mancini ritorna al passato, inaspettata attrazione di Bologna - Sampdoria per il campionato Primavera. Stesso campo, stesso ambiente. Uniche differenze: l'età e gli anni. Eh sì, perché ne sono trascorsi 18 da quando è approdato a Casteldebole. Nell'autunno del 1977 aveva solo 13 anni e tifava Juventus. I suoi idoli erano Bettega e Boninsegna. Veniva da Jesi, cittadina marchigiana a 200 chilometri da Bologna. Doveva andare al Miilan: era stato segnalato a Liedholm, che lo fece convocare a Milanello per un provino, ma il telegramma dell'invito non finì all'Aurora, la società per la quale era tessserato, bensì al Real, altro sodalizio jesino. E così Marino Perani lo portò al Bologna per 5 milioni, da pagarsi al debutto in prima squadra. Cosa che avvenne nel 1980 in occasione del torneo di Capodanno in Bologna-Cagliari. All'inizio Mancini soffriva il clima gelido di Casteldebole. E aveva nostalgia dei genitori, papà Aldo e mamma Marianna. Si alzava al mattino presto e con l'autobus di linea si recava a scuola. Alla quale disse basta alla terza media, per intraprendere un corso di inglese. Ricorda Perani: «Già allora Roberto aveva il calcio in testa. Trattava divinamente la palla e vedeva il gioco. Era completo, un po' rifinitore e un po' attaccante, col fiuto del gol». 

Ed ecco che a 17 anni, dopo 37 gol con gli Allievi e 28 con la Primavera, per Mancini si aprono le porte della prima squadra e del successo. Tutto succede improvvisamente. Infortunatosi Fiorini, Burgnich resta solo con Chiorri e per completare l'attacco punta su Mancini. Lo convoca e lo fa esordire in serie A il 13 setttembre 1981 in Bologna-Cagliari (1-1). Spiega Burgnich: «Doveva andare al Forlì per farsi le ossa. Il presidente Fabbretti lo aveva promesso al compianto Vulcano Bianchi. Con Macina, Di Sarno e Baccari, Mancini era il giocatore più dotato di quella Primavera. Era un centrocampista, molto più maturo e cosciente della sua età. Se avesse giocato sempre a centrocampo, con la faccia verso la porta, sarebbbe diventato un nuovo Platini». Roberto guadagnava 90.000 lire al mese. Ma ogni tanto c'era il premio partita, più alto dello stipendio. E ammetteva: «Lo mando ai miei genitori. Vorrei che servissero per costruire una casetta». Ora si dice che Roberto cerchi una casa a Bologna. Non si sa se ci tornerà prima o dopo aver concluso la carriera.

Mancini, il golden boy rossoblù. Un genio, ceduto alla Samp per 4 miliardi.
Di Giuseppe Tassi.

Questa è la storia di un bambino prodigio, figlio di un falegname. Niente di trascendente o di ultraterreno: solo una bella favola nel regno del pallone. Qui si parla di Roberto Mancini da Jesi, piccolo figlio dell'operosa provincia marchigiana, destinato a ereditare un soprannome che ha fatto epoca nel calcio: quello di «golden boy», ragazzo d'oro. La pasionaccia per il pallone lo strappa da casa in età verdissima, quando ha ancora 15 anni. In paese è già un fenomeno, un bambino prodigio, appunto. Palla al piede diventa una forza della natura e allora lo zio, che per il calcio vive e sospira, lo porta a Bologna per un provino. Sotto le Due torri prospera una scuola di calciatori piuttosto avviata e la squadra primavera di Soncini è un autentico gioiello. Il bimbo di Jesi piace subito, si distingue dai compagni per la sicurezza di tocco, per una precoce maturità del fisico, per la determinazione che sembra animarlo. E allora eccolo vestito di rossoblù a tirar calci nel «college » di Casteldebole per due interi inverni. La famiglia è lontana 250 chilometri, ma in certe giornate diventano un abisso incolmabile e nemmeno il telefono riesce a spezzare il cerchio della nostalgia. Robertino cresce bene, se non in sapienza (perchè la scuola continua a risultargli ostica) in forza fisica e qualità tecniche. Molto presto è una stellina del campionato Primavera e il magico Bologna di Radice lo aggrega qualche volta ai suoi allenamenti. Il Gigi, che deve correre un campionato in salita e disciplinare la truppa, lo nota di sfuggita, ma il suo vice Mirko Ferretti lo lancia in pista in un Torneo di Capodanno e Mancini seduce subito le 

folle del Comunale. Il suo calcio è fatto d'istinto e di potenza, di tecnica eccellente e di velocità. È un calciatore moderno, modernissimo, capace di bruciare in pochi secondi larghissime fette di campo, di capovolgere l'azione con sorprenderete rapidità. Alto 1,80, cosce ipertrofiche su un solido telaio di muscoli: su queste doti fisiche il ragazzo di Jesi innnesta il proprio talento calcistico. Il risultato è un giocatore inarrestabile, più trequartista che punta, costruito per le accelerazioni in verticale, per gli scatti brucianti, per le progressioni diaboliche. Il dribbling è secco, essenziale, ma le finte di corpo lasciano di sale gli avversari e in area di rigore il «bimbo d'oro» mostra una freddezza e una sicurezza di tocco invidiabili. Il debutto in serie A arriva quando non ha nemmeno diciassette anni, nell'indecifrabile Bologna di Tarcisio Burgnich. L'ex terzino dell'Inter predica il calcio coperto e speculatore che fece grande Helenio Herrera e la sua Inter, ma l'organico rossoblù non sembra tagliato per la difesa a oltranza con la cariatide Mozzini e un pugno di giovani senza esperienza. A centrocampo c'è il fallimento completo del tedesco Neumann, mentre Colomba non può improvvisarsi regista, né reggere da solo il peso del lavoro di impostazione. Insomma la squadra va maluccio, si barcamena fra pareggi senza gioco e sconfitte impietose, ma quando trova l'ancora di salvezza è proprio il Mancini a fornirgliela con gol che sono autentiche uova d'oro. Robertino, che ha come compagni di linea il mattocchio Fiorini o l'imprevedibile Chiorri (un esteta del pallone, che ha piede raffinatissimo ma carattere moscio) segna la bellezza di nove gol senza rigori, incanta le platee di mezza Italia, si prenota un domani da vip del campionato e un posto nel calcio che conta. Sì, perché nonostante i suoi gol, il Bologna finisce miseramente in serie B, la società va lentamente in malora. Il presidente Fabbretti si aggrappa al totem di Radice, ma intanto cede Mancini alla Sampdoria per quattro miliardi. Il sogno dei bolognesi svanisce lì. 

Una lunga storia d'amore. Roberto Mancini in esclusiva per Forza Bologna. 

Sedotti e abbandonati. 

Di Simona Altaniti

Così si sentono i tifosi rossoblù: sedotti da una tecnica eccellente capace di generare straordinarie invenzioni e abbandonati da un figliolo talentuoso, cresciuto nel grembo di Casteldebole e maturato nei campetti del vivaio rossoblu. È una lunga storia d'amore quella che vi stiamo per raccontare: protagonisti Bologna e Roberto Mancini. Una storia che nasce nel 1978 quando Robertino, allora tredicenne, approda in terra felsinea, acccompagnato da Alberto Marchetti, un amico di famiglia nato a Jesi, ma a quell'epoca residente a Castenaso, un paese in provincia di Bologna: «Ricordo l'emozione fortissima che mi accompagnava quando arrivai a Casteldeebole per il fatidico provino. Il mitico Bologna di Perani e Fogli ... un sogno. Fu un momento indimenticaabile, indelebile, di quelli che ti si fissano dentro». Inutile dirvi che il provino ebbe esito positivo. Roberto fu subito annesso alla squadra Primavera, prima sotto l'occchio vigile di Perani e poi sotto quello di Soncini. «I primi tempi soffrivo tantissimo la lontananza della mia famiglia, ma ho trovato persone amiche che mi hanno aiutato a superare la nostalgia di casa». Intanto questo talentuoso e precoce giovanotto, continuava a migliorarsi e a strabiliare i suoi allenatori, fino a quando Gigi Radice, l'allenatore della prima squadra ed il suo secondo Amilcare Ferretti, accorgendosi di lui, decisero di gettarlo nella fossa dello Stadio Comunale in occasione di un torneo di Capodanno: «In quel periodo mentre la Nazionale era impegnata in Uruguay per il Mundialito, il Bologna disputò un torneo di Capodanno: io ebbi l'oppportunità di giocare un intero tempo contro il Torino e ne fui veramente felice e lusingato, ma non ricordo come giocai, sono passati tanti anni ... ». E' modesto Roberto, perchè i presenti 

rimasero strabiliati dalle giocate e dalla sicurezza di tocco di questo gioiellino. Poi avvenne il grande debutto in prima squadra: era il 13 settembre 1981. «La partita era un Bologna Cagliari: ad un certo punto l'allenatore Tarcisio Burgnich mi disse di scaldarmi e capii che era giunto il mio momento». Quella del debutto fu una stagione dolceamara: Mancini fece 9 gol (senza rigori), un risultato da record per un esordiente ma nonostante questo exploit il Bologna non riuscì ad evitare la retrocesssione in serie B. «Quell'anno diedi tutto me stesso, nonostante i sedici anni e mezzo, ma ogni sforzo fu vano. Ci furono parecchi problemi: in primis l'esonero di Burgnich a poche giornate dalla fine (subentrò poi Liguori) e soprattutto dissapori societari che contribuirono in maniera determinante a quel triste risultato». Robertino però riuscì a consolarsi con la squadra allievi della quale era capitano, conquistando a Bari il titolo nazionale di categoria, con una squadra di giovani promettentissimi, allenati da Franco Bonini: Turchi, Salice, Nobile, Martelli, Treggia, De Bianco, Macina, Bellotto, Marocchi, Mancini e Gazzaneo. E si consolò, insieme ai compagni di quella squadra Treggia e Macina, con la convocazione nella Nazionale Juniores. Roberto continuava a mostrarsi in tutta la sua bellezza calcistica e da nord, sud, ovest, est, cominnciarono a piovere offerte allettanti: il Presidente rosso blu Tommaso Fabbretti si lasciò incantare dalle parole entusiastiche (e dai 4 miliardi...) del presidente della Sampdoria Paolo Mantovani, destinato a diventare il 'padrino' di Roberto: «Ricordo con tristezza il passaggio da Bologna a Genova: l'inizio fu abbastannza traumatico, soprattutto perchè essendo i genovesi completamente diversi dai bolognesi, dovetti stravolgere le mie abitudini. 

In più la persona che mi ha voluto a tutti i costi a Genova, il presidente Mantovani, in quel periodo non era in Italia, insomma non fu un trasferimento facile, all'inizio». Nelle parole di Roberto si denota un forte attaccamento all'indimenticabile presidente blucerchiato: «Sicuramente grazie a lui sono diventato un giocatore professionista, ma la mia gratitudine va anche e soprattutto al Bologna, la società calcistica che mi ha lanciato, ed in particolaare a Walter Bicocchi, che era il responsabile del centro tecnico di Casteldebole, agli allenatori Perani, Fogli, Bonini, Soncini ed al Dott. Boni. E poi alla gente che mi è sempre stata vicina e che non dimenticherò mai. Rimpiango gli anni passati a Bologna perchè potevano essere tanti ed invece sono stati solo quattro. Troppo pochi, sinceramente. Pochi per realizzare il mio desiderio: mi sarebbe piaciuto fare nel Bologna quello che ho fatto nella Sampdoria». Come abbiamo detto è una lunga storia d'amore, della quale è impossibile dimenticarsi: «Seguo sempre le vicissitudini del Bologna. I rossoblù quest'anno sono troppo forti, in più mi sembra che la Spal sia scoppiata. Vorrei complimentarmi con il presidente Giuseppe Gazzoni Frascara per il lavoro di consolidamento della società che ha messo in atto un anno e mezzo fa e che finalmente sta dando gli sperati frutti. Ho molta fiducia in lui perchè mi sembra una persona seria e credo che riporterà il Bologna in serie A in brevissimo tempo. Immagino già un Sampdoria - Bologna molto, molto vicino ... ».

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